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domenica 23 febbraio 2014

Serata tipo - Raccontare la Storia con una merenda

Molto spesso i film vengono in aiuto della scuola o dei genitori che devono spiegare o raccontare un difficile avvenimento storico ai più piccoli. Uno di questi è l'Olocausto. Il bambino con il pigiama a righe è un delicato lungometraggio che racconta il Nazismo attraverso gli occhi di due bambini e della loro profonda amicizia, che ha superato anche le difficoltà razziali. Per accompagnare un tale insegnamento, c'è bisogno di addolcire la bocca. Richiamando la tradizionale cucina giudaico - romanesca, ecco una rivisitazione di un loro dolce classico: la crostata di ricotta e marmellata di visciole, che qui è diventata Crostata di ricotta e confettura di mirtilli neri di bosco. La ricetta originale è molto diffusa anche a Pitigliano, paese nativo della madre di Elena. Un modo per rendere omaggio al paese che viene definito La Piccola Gerusalemme.


La ricetta
Crostata di ricotta e confettura di mirtilli neri di bosco




INGREDIENTI per 8 persone:

-         300 g. di ricotta di bufala;
-         170 g. di confettura di mirtilli neri di bosco.

Per la pasta frolla vedi ricetta della crostata ai frutti di bosco.


PREPARAZIONE (60 minuti):

Dopo aver preparato la pasta frolla e dopo averla fatta riposare in frigo, dividerla in due parti e stenderle entrambe su un ripiano di marmo aiutandosi con la farina per non farle attaccare.
Disporre un primo cerchio più ampio su una tortiera precedentemente oleata, stendere prima la ricotta e poi la marmellata. Chiudere il tutto con il rimanente cerchio di frolla meno ampio.
Chiudere bene i bordi, spennellare con l’albume d’uovo. Cuocere in forno caldo ventilato a 180° per 40 minuti.
E’ possibile anche lavorare la ricotta con un po’ di zucchero a velo.
Impiattare con zucchero a velo, pezzettini di cioccolato fondente e guarnire con topping al cioccolato.

Alessandro Ricchi



La recensione
Il bambino con il pigiama a righe





Bruno vive a Berlino con la sua famiglia. Il padre, ufficiale nazista, riceve una promozione che lo porterà a comandare un piccolo campo di concentramento. Dopo una sfarzosa festa, fra l’orgoglio della moglie e il disappunto della madre, l’intera famiglia parte. Bruno si annoia lontano dai suoi amici; l’unica cosa che sembra attirarlo è quella fattoria vicino a loro, dove lavorano strani contadini vestiti tutti con dei pigiami a righe. Mentre la sorella di Bruno si innamora del giovane Tenente Kotler, gli equilibri della casa iniziano a rompersi..
L’Olocausto è stato al centro di diverse pellicole, donandogli sfumature differenti a seconda del modo di narrarlo, o di quale punto focalizzare. C’è chi ha preferito parlare di tedeschi che hanno salvato ebrei, chi della scelta difficile di madri in difficoltà, di fughe in treno o di bugie a fin di bene per nascondere ai figli la crudele realtà. Nel film di Mark Herman, la scelta cade su di un bambino e la sua famiglia. Bruno, con l’ingenuità dei suoi otto anni, apprende cosa sia un campo di concentramento a piccoli passi, accompagnandoci in quello che è un climax di forte impatto emotivo: la morte dei due amici, mentre si prendono per mano. La regia rigorosa, priva di virtuosismi, è accompagnata da una bella fotografia e da un buon cast, su cui primeggia Vera Farmiga (la madre). La bellezza, nonché la delicatezza, del film risiedono nel non mostrarci nulla, ma di farci intuire tramite suoni e sguardi dei protagonisti, la condizione in cui versano gli ebrei; giocoforza la consapevolezza storica di chi guarda e ben conosce cosa abbia affrontato questo popolo. La scena finale, infatti, verte proprio su questo; nel momento in cui gli viene ordinato di spogliarsi e di accalcarsi nelle docce, già capiamo cosa stà per accadere, proprio in virtù di quella coscienza storica. La crudeltà del nazismo si evidenzia tramite piccole pillole, nozioni, che sia il padre, il nonno o l’istitutore cercano di insegnare a Bruno stesso, che non comprende come possa un solo uomo o un intero popolo distruggerne un altro, senza capire che proprio loro sono la causa di uno sterminio. Il personaggio della madre è l’alter ego del pubblico stesso, che guarda, capisce ma non può far altro che continuare a guardare. L’interno del lager, ci viene mostrato solo alla fine, con l’ingresso di Bruno che diventa il portale di passaggio fra l’esterno e l’interno, divisi non solo da una barriera ideologica, ma anche fisica: quella del filo spinato elettrificato. Tale barriera viene già scalfita col passaggio del cibo per Shmuel e, con più forza, quando i due bambini fanno pace stringendosi la mano. L’amicizia fra Bruno e Shmuel è sincera e sentita: entrambi hanno il solo desiderio di conoscere un proprio coetaneo con cui poter giocare. L’unico momento di tensione fra i due si ha non perché Bruno creda ai dettami nazisti, ma perché spinto dalla paura che Kotler possa fargli del male, nel momento in cui vede li vede parlare. In questo crescendo di fratellanza, si rende ancor più giustificabile il fatto che Bruno passi il recinto ed aiuti l’amico a ritrovare il padre. Il film si chiude sulla portone serrato delle docce a gas, da cui proviene solo silenzio. Inevitabilmente ci si commuove.

Elena Mandolini


Buone pappe e buon film!

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